La Val San Martino è un anfiteatro naturale che affaccia sul lago di Como, dove questo declina a fiume Adda. Per la posizione strategica, nel passato la valle ha costituito una cerniera tra Venezia e Milano, qualificandosi come terra di mezzo e di confine e ancora oggi è il punto di incontro di due ambiti territoriali.
Il territorio della Val San Martino offre una varietà di paesaggi di ancestrale bellezza. Tramite il Passo del Pertus, lungo il versante lecchese della dorsale orobica, questa vallata comunica con la Valle Imagna. La tradizione vuole che il Passo sia stato aperto dagli Spagnoli durante la guerra tra Francesi e Austriaci. Sulla sommità del Passo è scolpita una croce con inciso l’anno 1708.
Lungo il sentiero che conduce al Passo di Pertus sorge l’Oratorio di S. Domenico. È conosciuto anche come Chiesina dei Morti, perché fu costruito per onorare i morti di peste. Nel 1629 -‘30, infatti, a causa del morbo pestifero morirono un quarto della popolazione esistente. I cadaveri vennero sepolti in massa ai piedi del Monte Pertus dove probabilmente esisteva una Cappella del XIV secolo, la quale divenne un ossario. Su questo luogo di culto venne poi eretto l’attuale Oratorio dedicato a San Domenico di Gusmán.
Vi si officiavano le solenni festività di Pentecoste, di San Domenico, dell’Addolorata e le celebrazioni dell’ultimo giorno dell’Ottavario dei Morti. Preceduto da un elegante protiro, il monumento si compone di un’aula absidata e una sacrestia. Il suo fiore all’occhiello è la presenza del particolare ciclo pittorico che risulta essere un rarissimo esempio, se non l’unico, di tutta la provincia. Le pitture murali sono ascrivibili ad un artista ignoto di ambito lombardo. Non si tratta di affreschi, ma pitture a tempera su intonaco e hanno sempre avuto un forte impatto sui fedeli, tanto che questi ultimi hanno lasciato, nel tempo, delle riflessioni e invocazioni incise sugli stipiti delle finestre e anche sulle pareti.
L’ Oratorio di San Domenico è incastonato in una scenografia naturale di grande bellezza e suggestione, con la corona delle montagne a fare da riparo e l’acqua del torrente che tintinna ai suoi piedi. Elevato su un poggio, il tempio incute rispetto ed emana un alone di mistero. Per raggiungere l’entrata bisogna salire una gradinata che si apre dietro una pesante cancellata su cui campeggiano le due lettere greche simbolo del messaggio Cristico: Alfa e Omega, l’Inizio e la Fine dei Tempi, in un ciclo incessante di Morte e Rinascita. Nulla muore se non vive e nulla vive se non si muore.
Superata la soglia della cancellata, si inizia l’ascesa verso il tempio dei morti. È incerto se esistesse già un edificio di culto medievale, ma il nuovo oratorio venne eretto nel 1730. In origine l’edificio era molto diverso da quello attuale. Negli anni seguenti, anche a causa dell’umidità, si profilò la necessità di continui restauri, perché la chiesa era oggetto di pellegrinaggi non solo per i morti ivi sepolti ma per la presenza di reliquiari. La pala d’altare, oggi non più presente, era una Crocifissione con San Domenico e l’Addolorata del pittore bergamasco Carlo Ceresa, che fu trasferita nella chiesa parrocchiale di Carenno.
La peste arrivò nella Val San Martino nel novembre 1629, in seguito alla discesa dei Lanzichenecchi che facevano parte dell’esercito mercenario al servizio dell’imperatore Ferdinando II. Costoro, provenendo da Nord, dovevano raggiungere Mantova passando per i territori del Ducato di Milano. Il confine tra quest’ultimo e i domini della Repubblica Veneta era rappresentato dal fiume Adda. Nei territori della Serenissima vigevano rigide regole sanitarie, tuttavia il primo caso di peste si ebbe a Foppenico e la morìa si estese velocemente nelle vicine Somasca, Rossino e, in breve, in tutta la valle arrivando a Bergamo e a Venezia.
Questo propagarsi si deve imputare in massima parte all’ingenuità delle povere genti che, a corto di approvvigionamenti, eludevano arbitrariamente il confine durante la notte, andando a trovare parenti o per ricevere aiuti. In tal modo alcune persone si resero inconsapevolmente veicolo del terribile contagio. Nell’intera Val San Martino vi furono quasi 3.000 decessi su 7.000 abitanti. Di fronte ad una simile catastrofe umanitaria la popolazione pensò ad una punizione divina o all’opera del demonio, da esorcizzare con preghiere e invocazioni alla Madonna, a Gesù Cristo e ai Santi.
Si moltiplicarono edicole votive, cappelle, oratori campestri dove poter recitare il Santo Rosario, considerata una pratica efficace in tempi di carestie ed epidemie. Gli appestati deceduti venivano sepolti lontano dai luoghi urbani, in fosse comuni o singole, a seconda della possibilità e dell’impervietà di un luogo. Per non dimenticare, la devozione popolare mantenne viva la memoria del flagello erigendo tempietti.
Bisogna considerare anche il periodo storico. Erano tempi della riforma di Martin Lutero e della Controriforma che riportò nella vita dei cristiani diversi aspetti teologici e pratici della dottrina di Santa Romana Chiesa. Il tema della morte tornò così a turbare e intimorire l’animo umano e, per far comprendere meglio il comportamento che si doveva tenere in vita, la Controriforma decise di dare maggiore diffusione ad un filone artistico chiamato Vanitas. Esso ribadisce la caducità della vita, l’ineluttabilità della morte, l’inconsistenza di ogni cosa terrena.
Nella società dell’epoca, temprata da epidemie, carestie e rifugiatasi nei dogmi religiosi, il monito era chiaro: abbandonare ogni velleità umana, ogni rincorsa dei piaceri materiali, attenendosi alla morale della Chiesa cristiana cattolica. Forse anche questo fatto è in linea con lo spirito della Vanitas: tutto è destinato a dissolversi. Esse sono disposte sulle due pareti laterali dell’unica navata entro riquadri di colore carminio come all’interno di un palchetto teatrale, dal quale scendono festoni, e lateralmente sono accomodati dei teschi; dal soffitto della scenografia dipinta scende un teschio con delle ossa, trattenuto da un festone e mescolato ad un elemento vegetale. L’artista ebbe cura di mettere in risalto le decorazioni di questa apparentemente secondaria scenografia.
Sull’arcone ligneo che separa l’aula dalla zona presbiteriale si legge un versetto del De Profundis, tradizionalmente cantato nella liturgia dei defunti, supplicando il perdono dei peccati e sperando della misericordia divina. La volta del presbiterio presenta l’unica iconografia non macabra della chiesa, l’Eucaristia. Esistevano numerose cappelle lungo i sentieri di collegamento tra le varie frazioni, talune tutt’oggi esistenti. Tali cappelle o edicole votive costituivano anche luoghi di incontro durante le soste o rifugio durante i temporali.