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Arte & Cultura
Samuele Biava (1792 – 1870)
È stato un poeta italiano, autore di liriche popolareggianti, novelle in versi e romanze.
Samuele Biava è stato un sacerdote e teologo italiano del XIX secolo, noto soprattutto per il suo impegno religioso e pastorale nella diocesi di Bergamo. Nato nel 1792 a Vercurago da Francesco, medico-doganiere e possidente, Biava si distinse come figura di spicco nell’ambito ecclesiastico locale, operando in un periodo storico caratterizzato da grandi cambiamenti politici e sociali, come le guerre napoleoniche e la Restaurazione.
I primi rudimenti dell’istruzione il giovane Biava li ebbe ricevuti in casa e da un maestro del luogo. Qualche lezione di latino può darsi gli venisse impartita dal venerando Padre Rotigni, un erudito appartatosi nel convento di Somasca. Forse per uno o due anni frequentò il vicino collegio di Celana, come alunno esterno. Sicuramente iniziò gli studi universitari a Padova e li concluse a Pavia dove si laureò in statistica ed economico-morale.
Dopo essere stato, supplente in varie classi di grammatica e di umanità nel Regio ginnasio di S. Alessandro a Milano, ebbe dal consiglio comunale di questa città la cattedra di umanità nel Civico ginnasio di S. Marta. Vi rimase per trent’anni, dal 1820 al 1850, nonostante aspirasse all’insegnamento universitario. A Milano strinse amicizia con Alessandro Manzoni, A. Rosmini, Carlo Cattaneo e Tommaseo, col quale ultimo tenne un lunghissimo epistolario.
Le prime poesie del Biava risalgono agli anni del dominio napoleonico in Italia. Un sonetto per il matrimonio di Napoleone con Maria Luisa d’Austria, un’ode per la nascita del re di Roma. Si trattava di versi encomiastici e classicheggianti. Poi ancora La Cosmogonia civile, pubblicato per l’anniversario della fondazione del Civico ginnasio di S. Marta. Traduceva intanto, le liriche popolareggianti di Bums, le ballate medievaleggianti di Scott e la Śakuntalā dell’indiano Kālidāsa. Nel 1826 pubblicò, anonimo, un esperimento di melodie liriche e, due anni dopo, non più anonimo, un libretto di poesie, intitolato Melodie Lombarde.
Adoperando una metrica, già usata dal Manzoni nelle poesie civili e religiose, il Biava cantava sentimenti e personaggi cari alla borghesia liberale lombarda di quegli anni: l’esule, il contrabbandiere, il cacciatore, la fidanzata del coscritto. Completamente sgombre di mitologia classica, le sue poesie sono ambientate nel Medioevo, tra castelli e boschi orridi, con crociati e trovatori, regine e cavalieri: il velo storico non giovò alla invenzione poetica e non riuscì a mascherare le convinzioni liberali dell’autore.
Come era inevitabile, la Biblioteca italiana, rivista governativa di scienze, lettere ed arti, negò ogni favore alle melodie del Biava. Anzi, denigrando lo scrittore e l’uomo, lo denunciò al governo come indegno di adempiere alle funzioni di insegnante. Il Londonio, nemico dei romantici e direttore generale dei ginnasi di Milano, appoggiò i difensori del Biava, ma gli ingiunse di non pubblicare altri versi. Né i vivaci articoli che in sua difesa scrissero gli amici Cantù, Tommaseo, Mazzini e Cattaneo riuscirono a mettere in evidenza l’esistenza di originalità e di novità in quegli esperimenti lirici. Il Biava stesso preferì volgere la sua abilità di verseggiatore alle traduzioni di poesie religiose e si mise a tradurre, in versi per musica, inni e preghiere liturgiche, raccogliendoli più tardi in un libretto, che intitolò Melodie Sacre e che gli diede una certa popolarità. Molti musicisti, fra cui Gaetano Donizetti, composero musiche per esso.
Il Biava non abbandonò completamente il proposito di educare i ceti più umili per mezzo della poesia. Continuò a pubblicare versi e prose su giornali e periodici rivolti al popolo. Raccolse poesie popolari provenienti da vari paesi, inseguendo l’ambizioso sogno di dare all’Italia una poesia lirica fatta in tal modo da divenire tradizionale, popolare.
Abbandonato l’insegnamento per raggiunti limiti di età nel 1850, il Biava continuò a scrivere negli ultimi venti anni trascorsi a Bergamo presso la sorella. La vecchiaia fu per lui l’epilogo di una vita serena e calma.
Dopo aver ricevuto un decreto del Re della giovane Nazione Italiana con il quale veniva nominato, per i suoi alti meriti umani e letterari, Ufficiale della Corona D’Italia, morì serenamente l’11 novembre del 1870.